mercoledì 5 dicembre 2012


KINDNESS

Taglio la notte invernale in bicicletta, arrancando al Molo 18 di Torino. 
L’aria lungo il Po è gelida e le guance si bagnano di lacrime che nascono per il troppo freddo. Parcheggio il bolide e noto con sospetto che nessuna luce è accesa, non c’è anima viva intorno a me, tutte le entrate sembrano sprangate. No, dai, che abbia davvero sbagliato locale? Mi guardo attorno cercando visi amici o semplici sguardi estranei di conferma. 

Nel buio in lontananza intuisco tre figure che si avvicinano, una coppia e un ragazzo con cappellino da skater e pinocchietto alla Blink, mi fa ‘ciao’ con la manina.“Scusa, è qui il concerto di Kindness?”, ricevo un “What?” come risposta. Do un cinque mentale alla zia fortuna, mi aggrego alla crew dell’artista ambient funk e scambio due parole con Joe, tuttofare della band, sfoggiando un inglese da video tutorial di John Peter Sloan.

Camerino, massì scrocchiamo sia l’entrata che del vino, comincia il sound check. Poche persone sotto il palco, forse é ancora troppo presto, il batterista arriverà in ritardo. Purtroppo il numero dei presenti non subirà un picco in ascesa.  Ogni membro della band è in postazione: coriste in coordinato con infinite gambe fasciate da pantaloni di pelle, batterista pervenuto, Adam Brainbridge riempie la stanza con le ballate atmospheric di Cyan.

 Per i muri del Molo vibra la rotondità del basso che si fa largo tra le parole della canzone. Inaspettatamente Adam scende dal palco e iniza il tour dei presenti a cui avvicina il microfono: “Hi! What’s your name?”, tra sorrisi imbarazzati e strette di mano, s’instaura una corposa atmosfera da salotto.

Nonostante il discreto riscontro della serata, non c’è disagio nei gesti di Adam: esce di scena e ritorna armato di ombrello rosso; da’ il via ad un’interpretazione di Doigsong arricchita di piroette e vaghe mosse alla Marcel Marceau. La sua voce saturata scandisce un riverbero per tutta la stanza intonando Swinging Party, le coriste collaborano a pieno regime nel completare un’esecuzione che raggiunge il surreale quando decide di spostare a centro palco un divanetto bianco.

Pupe sedute sui braccioli laterali, Adam è al centro del sofà: eppure manca qualcosa. Scende nuovamente per recuperare tre ignari spettatori, tra cui la sottoscritta, che piacevolmente sorpresi e il giusto imbarazzati, diventano parte integrante della scenografia.


Gee Up, That’s alright, House. Il live conclude con Gabriel, cover di Roy Davis, pioniere dell’house di Chicago. Sette pezzi vivi, intensi ed energici, arricchiti da una cornice di croccante eleganza e frizzanti sfumature vintage; il perfetto connubio di un’artista che sotto un’invidiabile cascata di capelli recita cosciente:“World, you need a change of mind”. 


Video del live al Molo 18:

martedì 4 dicembre 2012


E’ la sera di venerdì 30 Novembre e sta piovendo, a Torino. 
Il freddo invernale inizia a farsi pungente tra le vie del centro illuminate per Natale. Prendo l’ombrello, taglio per il Parco Reale dove ho appuntamento per andare a sentire il concerto dei TOY allo Spazio211: sono dubbiosa, ho ascoltato il disco a ripetizione per giorni cercando di capire in quale situazione la loro scarica di melodie rock psichedelico un po’ datato siano più godibili, ma resto confusa. Non riesco ancora ad apprezzarli.

Vedo Tom Dougall aggirarsi per il locale ed è proprio come me lo aspettavo dopo aver visto alcune video interviste: alto, asciutto ai margini della magrezza malsana, il caschetto con riga in mezzo gli fa cadere ciuffi di capelli sugli occhi truccati. Cammina con una compostezza altolocata che fa a schiaffi con il tic compulsivo di spostarsi i capelli al lato del viso con entrambe le mani. Sembra timido e impacciato, un po’ imbranato se vogliamo, poi sale sul palco, afferra la chitarra consumata, il legno è completamente scrostato ai lati. Circondato dal resto della band si veste di una grinta educata che m’impone di mantenere lo sguardo fisso su di lui, completamente catturata.

L’intro di Colors Running Out esplode, la sua voce rappresenta Tom più di qualsiasi parola si possa spendere per descriverlo: è introversa, cupa, malinconica. Chitarre, basso, batteria e tastiera hanno la meglio sul suo timbro incerto. Inizio a domandarmi come abbia potuto non afferrare prima la grandezza di questo gruppo che veste di un’eleganza così poetica da risultare decontestualizzata, cantautori appartenenti a un’epoca  trascorsa tempo fa’.

Ci sono Ian Curtis, Velvet Underground e Robert Smith sul palco assieme a loro: sono cinque ragazzi che reincarnano un Rimbaud consumato con chitarra alla mano che sul palcoscenico istiga i presenti alla sporcizia del rock.
Surriscaldano le pareti dello Spazio211 con i riff prepotenti  e il drumming settato dei sette minuti post-punk shoegaze di Left Myself Behind alternati alla candida inquietudine di Make it mine. Undici brani che spaziano tra i pezzi dell’EP e l’omonimo album di debutto pubblicato il 10 di questo settembre sotto la Heavenly Recordings e prodotto da Dan Carey (Hot Chip, Chairlift, The Kills).

Dead and Gone, Drifting Deeper, Motoring, Heart skips a beat si rincorrono tra i capelli troppo lunghi del bassista, l’abito aderente della tastierista, la discreta coordinazione estetica a prova di metronomo di questi cinque ragazzi londinesi che hanno affascinato il pubblico dal primo beat. 

Il concerto termina con il kraut-rock di Kopter, torno a casa con un disco in più e la soddisfazione di aver lasciato ogni dubbio al primo giro di basso.