martedì 4 dicembre 2012


E’ la sera di venerdì 30 Novembre e sta piovendo, a Torino. 
Il freddo invernale inizia a farsi pungente tra le vie del centro illuminate per Natale. Prendo l’ombrello, taglio per il Parco Reale dove ho appuntamento per andare a sentire il concerto dei TOY allo Spazio211: sono dubbiosa, ho ascoltato il disco a ripetizione per giorni cercando di capire in quale situazione la loro scarica di melodie rock psichedelico un po’ datato siano più godibili, ma resto confusa. Non riesco ancora ad apprezzarli.

Vedo Tom Dougall aggirarsi per il locale ed è proprio come me lo aspettavo dopo aver visto alcune video interviste: alto, asciutto ai margini della magrezza malsana, il caschetto con riga in mezzo gli fa cadere ciuffi di capelli sugli occhi truccati. Cammina con una compostezza altolocata che fa a schiaffi con il tic compulsivo di spostarsi i capelli al lato del viso con entrambe le mani. Sembra timido e impacciato, un po’ imbranato se vogliamo, poi sale sul palco, afferra la chitarra consumata, il legno è completamente scrostato ai lati. Circondato dal resto della band si veste di una grinta educata che m’impone di mantenere lo sguardo fisso su di lui, completamente catturata.

L’intro di Colors Running Out esplode, la sua voce rappresenta Tom più di qualsiasi parola si possa spendere per descriverlo: è introversa, cupa, malinconica. Chitarre, basso, batteria e tastiera hanno la meglio sul suo timbro incerto. Inizio a domandarmi come abbia potuto non afferrare prima la grandezza di questo gruppo che veste di un’eleganza così poetica da risultare decontestualizzata, cantautori appartenenti a un’epoca  trascorsa tempo fa’.

Ci sono Ian Curtis, Velvet Underground e Robert Smith sul palco assieme a loro: sono cinque ragazzi che reincarnano un Rimbaud consumato con chitarra alla mano che sul palcoscenico istiga i presenti alla sporcizia del rock.
Surriscaldano le pareti dello Spazio211 con i riff prepotenti  e il drumming settato dei sette minuti post-punk shoegaze di Left Myself Behind alternati alla candida inquietudine di Make it mine. Undici brani che spaziano tra i pezzi dell’EP e l’omonimo album di debutto pubblicato il 10 di questo settembre sotto la Heavenly Recordings e prodotto da Dan Carey (Hot Chip, Chairlift, The Kills).

Dead and Gone, Drifting Deeper, Motoring, Heart skips a beat si rincorrono tra i capelli troppo lunghi del bassista, l’abito aderente della tastierista, la discreta coordinazione estetica a prova di metronomo di questi cinque ragazzi londinesi che hanno affascinato il pubblico dal primo beat. 

Il concerto termina con il kraut-rock di Kopter, torno a casa con un disco in più e la soddisfazione di aver lasciato ogni dubbio al primo giro di basso. 


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