E’ la sera di venerdì 30 Novembre e sta piovendo, a Torino.
Il freddo invernale inizia a farsi pungente tra le vie del centro illuminate
per Natale. Prendo l’ombrello, taglio per il Parco Reale dove ho appuntamento
per andare a sentire il concerto dei TOY allo Spazio211: sono dubbiosa, ho
ascoltato il disco a ripetizione per giorni cercando di capire in quale
situazione la loro scarica di melodie rock psichedelico un po’ datato siano più
godibili, ma resto confusa. Non riesco ancora ad apprezzarli.
Vedo Tom Dougall aggirarsi per il locale ed è proprio come
me lo aspettavo dopo aver visto alcune video interviste: alto, asciutto ai
margini della magrezza malsana, il caschetto con riga in mezzo gli fa cadere
ciuffi di capelli sugli occhi truccati. Cammina con una compostezza altolocata
che fa a schiaffi con il tic compulsivo di spostarsi i capelli al lato del viso
con entrambe le mani. Sembra timido e impacciato, un po’ imbranato se vogliamo,
poi sale sul palco, afferra la chitarra consumata, il legno è completamente
scrostato ai lati. Circondato dal resto della band si veste di una grinta
educata che m’impone di mantenere lo sguardo fisso su di lui, completamente
catturata.
L’intro di Colors Running Out esplode, la sua voce
rappresenta Tom più di qualsiasi parola si possa spendere per descriverlo: è
introversa, cupa, malinconica. Chitarre, basso, batteria e tastiera hanno la
meglio sul suo timbro incerto. Inizio a domandarmi come abbia potuto non afferrare
prima la grandezza di questo gruppo che veste di un’eleganza così poetica da
risultare decontestualizzata, cantautori appartenenti a un’epoca trascorsa tempo fa’.
Ci sono Ian Curtis, Velvet Underground e Robert Smith sul palco
assieme a loro: sono cinque ragazzi che reincarnano un Rimbaud consumato con
chitarra alla mano che sul palcoscenico istiga i presenti alla sporcizia del
rock.
Surriscaldano le pareti dello Spazio211 con i riff
prepotenti e il drumming settato dei
sette minuti post-punk shoegaze di Left Myself Behind alternati alla candida
inquietudine di Make it mine. Undici brani che spaziano tra i pezzi dell’EP e
l’omonimo album di debutto pubblicato il 10 di questo settembre sotto la Heavenly
Recordings e prodotto da Dan Carey (Hot Chip, Chairlift, The Kills).
Dead and Gone, Drifting Deeper, Motoring, Heart skips a beat
si rincorrono tra i capelli troppo lunghi del bassista, l’abito aderente della
tastierista, la discreta coordinazione estetica a prova di metronomo di questi
cinque ragazzi londinesi che hanno affascinato il pubblico dal primo beat.
Il
concerto termina con il kraut-rock di Kopter, torno a casa con un disco in più
e la soddisfazione di aver lasciato ogni dubbio al primo giro di basso.
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