mercoledì 5 dicembre 2012


KINDNESS

Taglio la notte invernale in bicicletta, arrancando al Molo 18 di Torino. 
L’aria lungo il Po è gelida e le guance si bagnano di lacrime che nascono per il troppo freddo. Parcheggio il bolide e noto con sospetto che nessuna luce è accesa, non c’è anima viva intorno a me, tutte le entrate sembrano sprangate. No, dai, che abbia davvero sbagliato locale? Mi guardo attorno cercando visi amici o semplici sguardi estranei di conferma. 

Nel buio in lontananza intuisco tre figure che si avvicinano, una coppia e un ragazzo con cappellino da skater e pinocchietto alla Blink, mi fa ‘ciao’ con la manina.“Scusa, è qui il concerto di Kindness?”, ricevo un “What?” come risposta. Do un cinque mentale alla zia fortuna, mi aggrego alla crew dell’artista ambient funk e scambio due parole con Joe, tuttofare della band, sfoggiando un inglese da video tutorial di John Peter Sloan.

Camerino, massì scrocchiamo sia l’entrata che del vino, comincia il sound check. Poche persone sotto il palco, forse é ancora troppo presto, il batterista arriverà in ritardo. Purtroppo il numero dei presenti non subirà un picco in ascesa.  Ogni membro della band è in postazione: coriste in coordinato con infinite gambe fasciate da pantaloni di pelle, batterista pervenuto, Adam Brainbridge riempie la stanza con le ballate atmospheric di Cyan.

 Per i muri del Molo vibra la rotondità del basso che si fa largo tra le parole della canzone. Inaspettatamente Adam scende dal palco e iniza il tour dei presenti a cui avvicina il microfono: “Hi! What’s your name?”, tra sorrisi imbarazzati e strette di mano, s’instaura una corposa atmosfera da salotto.

Nonostante il discreto riscontro della serata, non c’è disagio nei gesti di Adam: esce di scena e ritorna armato di ombrello rosso; da’ il via ad un’interpretazione di Doigsong arricchita di piroette e vaghe mosse alla Marcel Marceau. La sua voce saturata scandisce un riverbero per tutta la stanza intonando Swinging Party, le coriste collaborano a pieno regime nel completare un’esecuzione che raggiunge il surreale quando decide di spostare a centro palco un divanetto bianco.

Pupe sedute sui braccioli laterali, Adam è al centro del sofà: eppure manca qualcosa. Scende nuovamente per recuperare tre ignari spettatori, tra cui la sottoscritta, che piacevolmente sorpresi e il giusto imbarazzati, diventano parte integrante della scenografia.


Gee Up, That’s alright, House. Il live conclude con Gabriel, cover di Roy Davis, pioniere dell’house di Chicago. Sette pezzi vivi, intensi ed energici, arricchiti da una cornice di croccante eleganza e frizzanti sfumature vintage; il perfetto connubio di un’artista che sotto un’invidiabile cascata di capelli recita cosciente:“World, you need a change of mind”. 


Video del live al Molo 18:

martedì 4 dicembre 2012


E’ la sera di venerdì 30 Novembre e sta piovendo, a Torino. 
Il freddo invernale inizia a farsi pungente tra le vie del centro illuminate per Natale. Prendo l’ombrello, taglio per il Parco Reale dove ho appuntamento per andare a sentire il concerto dei TOY allo Spazio211: sono dubbiosa, ho ascoltato il disco a ripetizione per giorni cercando di capire in quale situazione la loro scarica di melodie rock psichedelico un po’ datato siano più godibili, ma resto confusa. Non riesco ancora ad apprezzarli.

Vedo Tom Dougall aggirarsi per il locale ed è proprio come me lo aspettavo dopo aver visto alcune video interviste: alto, asciutto ai margini della magrezza malsana, il caschetto con riga in mezzo gli fa cadere ciuffi di capelli sugli occhi truccati. Cammina con una compostezza altolocata che fa a schiaffi con il tic compulsivo di spostarsi i capelli al lato del viso con entrambe le mani. Sembra timido e impacciato, un po’ imbranato se vogliamo, poi sale sul palco, afferra la chitarra consumata, il legno è completamente scrostato ai lati. Circondato dal resto della band si veste di una grinta educata che m’impone di mantenere lo sguardo fisso su di lui, completamente catturata.

L’intro di Colors Running Out esplode, la sua voce rappresenta Tom più di qualsiasi parola si possa spendere per descriverlo: è introversa, cupa, malinconica. Chitarre, basso, batteria e tastiera hanno la meglio sul suo timbro incerto. Inizio a domandarmi come abbia potuto non afferrare prima la grandezza di questo gruppo che veste di un’eleganza così poetica da risultare decontestualizzata, cantautori appartenenti a un’epoca  trascorsa tempo fa’.

Ci sono Ian Curtis, Velvet Underground e Robert Smith sul palco assieme a loro: sono cinque ragazzi che reincarnano un Rimbaud consumato con chitarra alla mano che sul palcoscenico istiga i presenti alla sporcizia del rock.
Surriscaldano le pareti dello Spazio211 con i riff prepotenti  e il drumming settato dei sette minuti post-punk shoegaze di Left Myself Behind alternati alla candida inquietudine di Make it mine. Undici brani che spaziano tra i pezzi dell’EP e l’omonimo album di debutto pubblicato il 10 di questo settembre sotto la Heavenly Recordings e prodotto da Dan Carey (Hot Chip, Chairlift, The Kills).

Dead and Gone, Drifting Deeper, Motoring, Heart skips a beat si rincorrono tra i capelli troppo lunghi del bassista, l’abito aderente della tastierista, la discreta coordinazione estetica a prova di metronomo di questi cinque ragazzi londinesi che hanno affascinato il pubblico dal primo beat. 

Il concerto termina con il kraut-rock di Kopter, torno a casa con un disco in più e la soddisfazione di aver lasciato ogni dubbio al primo giro di basso. 


martedì 27 novembre 2012

YOUNG MAGIC



«Una rosa è una rosa e solo una rosa. Ma queste gambe di sedia sono gambe di sedia e sono anche san Michele e tutti gli angeli.»
(Aldous Huxley, Paradiso e inferno)


Per il loro album di debutto il collettivo Young Magic composto da Isaac Emmanuel, Melati Malay e Michael Italia abbraccia la scelta di un titolo evocativo: Melt, "Fondere", ha in sè la più completa e sfaccettata introduzione agli undici brani che compongono questo inquieto quanto suggestivo Lp, definito da Q Magazine come "L’unione dei battiti del mondo". 


Isaac e Michael sono australiani espatriati, Melati è indonesiano nativo: scrupolosi viaggiatori famelici d’ispirazione, visionari di suoni devoti a un ordine sacrale, fedeli a una cleptomania musicale imponente, scrivono i brani in maniera frammentaria lungo il tempo, inglobando, masticando e vomitando influenze dai luoghi più disparati in cui hanno registrato.


S’incontrano a Brooklyn nel 2007, trascorrono i successivi quattro anni adempiendo la loro vocazione gipsy. Migrano in Sud-America, attraversano l’Europa tenendosi stretti gli attrezzi di registrazione portatile e reinventando i rumori che tempestano il quotidiano. Gli strumenti classici sono accantonati, salvo brevi cameo. Benvenuto il tintinnio delle monete sul tavolo e lo squillo di telefoni e orologi, diventati parte integrante di un background musicale che fa dei suoni routinari uno tra i più interessanti picchi della sua eccentricità. Sintetizzatori, campionatori e pedali loop sono spontaneo prolungamento degli arti di Isaac, Melati e Michael, con cui diventano un ibrido, un unico essere pragmatico.

Nel febbraio del 2011 pubblicano sotto la direzione dell’etichetta discografica Carpark Records: in ogni brano si coniuga una molteplicità di generi che rende arduo il processo standard di etichettamento, liberandoli e al tempo stesso condannandoli a essere indefinibili, complessi mediatori di sensazioni elettriche che tramutano in disparate esplosioni d’arte, che siano musica, video, colonne sonore o installazioni, gli Young Magic mirano alla forma, al beat perfetto.

Sono in salotto, abbasso le tapparelle e spengo la luce. Dalle casse del computer esplode un lamento timido, insicuro, quasi impacciato. Alzo il volume nel momento stesso in cui la musica si evolve e muta carattere: prendono forma ritmi serrati, superbamente alternati alla calma; Sparkly e Slip Time inaugurano un viaggio lungo trenta minuti attraverso quelle che Aldous Huxley definirebbe "Le porte della percezione"




You with air assume i connotati di un cantico mistico: soggioga con una base insistente, travolge con una cantilena ripetitiva che perpetua sessualità, erotismo; introduce quella preghiera sciamanica che è Yalam, 1 minuti e 56 secondi in cui è riassunto il desiderio del gruppo di mirare a "Un’esplorazione nel subliminale, alla ricerca del sublime", come rilasciato dagli stessi in un’intervista.

Il trio tiene stretta la presa a uno stile musicale ampio, molto ampio, fin troppo: fa eco negli stili più diversificati annullandone i confini. Lascio che la testa e le spalle seguano l’andamento di Night In The Ocean, mi faccio trasportare.

L’intro di The Dancer concede un momento di estraneazione da quello che diventa il ritmo decisivo, un battito croccante, aggressivo.  A gran voce rimbombano sonorità tribali africane che fanno da sfondo al lamentevole richiamo di una voce angosciata e seducente.  A seguire c’è Cavalry, la perfetta premessa onirica a Sanctuary, un brano sognante, morbido, in cui si fa largo un trip-hop tenue, addomesticato.

Con Drawning Down The Moon s’interrompe un nostalgico viaggio vissuto per osmosi.

Continuo a impostare repeat, ma non mi basta, ascolto l’album ancora una volta.  La sensazione è quella d’aver letto un diario di viaggio intrinseco di domande, di segreti che gli autori hanno intenzionalmente voluto celare, lasciando all’occasionale spettatore un rimando di carnale irrequietezza.

Riapro le tapparelle, s’è già fatto buio fuori. Mi appoggio alla finestra, la luce della stanza rimanda al riflesso sul vetro; mi ci perdo e mi viene da pensare: se campionatori e Young Magic fossero già esistiti nel1956, chissà cos’avrebbe scritto Aldous Huxley ascoltando Melt mentre era in botta da mescalina.

Ciò che è certo è che se potessimo scegliere la tracklist dei nostri sogni, o incubi, non avrei alcun dubbio:  Melt entrerebbe di diritto nella colonna sonora della mia non-esistenza rem.

QUI potete ascoltare l'intero album in streaming.

venerdì 27 luglio 2012

BAT FOR LASHES
Niente paesaggi cupi e maschere alla Donnie Darko.
Assenti le atmosfere dark punteggiate di sfarzi mistici e colori eccentrici.

Siamo nel dietro le quinte di un teatro vuoto, desolato. Il nostro sguardo è ricambiato da quello di Natasha Khan (Bat For Lashes), che ci racconta di una storia di riscatto e decadenza. E' il pianoforte a rompere il silenzio: ritma la voce straordinariamente calda e intensa di questa cantautrice inglese di origini pakistane, che attraverso le sue composizioni canta di ambigui terrori e ingenuità, dove il sacro e profano tingono le sfumature.
Con Laura si è trascinati in una moratoria sul senso dell' esistenza, la narrazione di paure che lasciano spazio a prospettive rassicuranti: "you'll be famous for longer and then, your name is tattooed on every boy’s skin, uh Laura you're more than a superstar".

Dopo il successo del primo album Fur and Gold, uscito nel 2006 e anticipato dal singolo The Wizard, Natasha ha mantenuto alto l'indice di aspettative con Two Suns, risultato dell'ispirazione che ha tratto dal suo temporaneo trasferimento negli Stati Uniti e attraverso il quale emerge Pearl, descritto come il suo alter-ego « ...una femme-fatale bionda, distruttiva, che pensa solo a se stessa. Una personalità che agisce come un velo sulla Natasha Khan più mistica e spirituale».

A giugno è stato annunciato che il 15 ottobre uscirà il terzo capitolo della saga musicale di Bat For Lashes, The Haunted Man, per il quale la cantante si è liberata dei suoi caratteristici ornamenti rituali arricchiti dai vari piumaggi per mettersi completamente a nudo. Una semplicità disarmante, ricca di un significato così profondo che solo il minimalismo è in grado di dare.
Questo singolo di lancio, già testato e acclamato in numerosi live, aumenta l'attesa per quello che si preannuncia essere l'album che confermerà Bat For Lashes alla vetta del successo maturo.

LAURA
You say that the evil left you behind
Your heart broken,
A part of you died

Keep your arms around me and softly say
Can we dance upon the tables again?

When you smile so wide
Your heels are so high
You can’t cry, get your glad rags on
And let’s sing along
To that lonely song
Is a train that crashed my heart
You’re the glitter in the dark, Uh, Laura you’re more than a suṗerstar
And in this horror show
I’ve got to let you know
Uh Laura you’re more than a superstar

We seen each other stuck in a pale blue dream
And your tears fell hard on my bed sheets
Keep your arms around me and softly say
Can we dance upon the tables again?

When you smile so wide
Your heels are so high
You can’t cry but you’re glad
Vibe’s on and let’s sing along
To that lonely song
You’re the train that crashed my heart
You’re the glitter in the dark
Uh, Laura you’re more than a superstar
You’ll be famous for longer and then
Your name is tattooed on every boy’s skin
Uh, Laura you’re more than a superstar

You’re the train that crashed my heart
You’re the glitter in the dark
Uh, Laura you’re more than a suṗerstar
And in this horror show
I’ve got to let you know
Uh Laura you’re more than a superstar
You’re more than a superstar

mercoledì 18 luglio 2012

"That's why I go for that rock'n'roll music
Any old way you choose it
It's got a back beat, you can't blues it
Any old time you use it
It's gotta be rock'n'roll music
If you wanna dance with me"


Nell'enorme mole di produzione cinematografica dedicata alla loro storia, Backbeat racconta in modo un po' didascalico il dietro le quinte degli albori dei Beatles, con uno sguardo mirato alla triste biografia di Stuart Sutcliffe. 'Stu', l'allora bassista della band, enigmatico artista proveniente da Edimburgo e grande amico di John, è stato voluto nel gruppo da quest'ultimo per le sue evidenti innate abilità di tombeur de femmes: vende un suo quadro, si compra un basso elettrico e inizia a violentarlo, nel senso più stretto del termine.

Ingaggiati all'Indra (locale nella zona a luci rosse di Amburgo), il 17 Agosto del 1960 John LennonPaul McCartney, George Harrison, Stuart Sutcliffe e Pete Best consumano il primo concerto sotto contratto a nome The Beatles; passa poco all'entrata in scena di Astrid Kirchherr, la carismatica fotografa di cui s'innamora Stu, ergo colei che ha sovvertito il look dei Beatles improntandogli quel taglio di capelli con stivaletto a punta annesso, diventati il loro biglietto da  visita per i primi due anni della scalata al successo.


"È stato ad Amburgo che noi abbiamo davvero fatto progressi. Dovevamo provare tutto quello che ci passava per la testa. Non c'era nessuno da cui copiare. Suonavamo quello che ci piaceva di più, e ai tedeschi andava bene così, purché il volume fosse alto."
(John Lennon)


L'ostentato disappunto di Paul riguardo l'evidente inadeguatezza musicale e il desiderio di maturare le proprie doti artistiche, spingono Stu ad abbandonare la band, iscriversi all'Hamburg College of Art e restare con Astrid dopo il rientro del gruppo in UK nel 1961.

«Some are dead and some are living / In my life I've loved them all»
(In my Life- The Beatles)

10 Aprile del 1962, a soli 21 anni, Stu muore nella soffitta del suo appartamento, stroncato da un aneurisma cerebrale.

Un'identità così drammaticamente poetica da assumere toni romanzati. Un personaggio a margine dell'immensa epopea dei Beatles, ma che nonostante abbia rivestito il suo ruolo sullo sfondo chiaroscuro della band, ne ha marcato indelebilmente il fascino eterno.

Per la colonna sonora di questo film (che dal punto di vista biografico non ha trovato d'accordo Sir Paul) sono stati uniti nomi tra i migliori musicisti degli anni '90; la BackBeat band che, anche se per un breve periodo dal '93 al '94, vede insieme Mike Mills (R.E.M.), Thurston Moore (Sonic Youth), Dave Grohl (Nirvana, ora leader dei Foo Fighters), Greg Dulli (The Afghan Whigs), Dave Pirner (Soul Asylum) e Don Fleming (Gumball), ha suonato e riarrangiato le canzoni originali dei Beatles.
Il risultato potete ascoltarlo QUI.
                                                                          

venerdì 29 giugno 2012

VADOINMESSICO
Sotto le luci della ribalta londinese, Giorgio Poti (Italia) Salvador Garza (Messico) e Stephan Miksch (Austria) tra jacket potatoes e fish&chips fondano i Vadoinmessico, a cui si aggiungono Alessandro Marrosu (Italia), e Joe White (UK).

Accomunati dalla passione per il folk psichedelico, nascono i primi testi di Giorgio, avvalsi di una notevole (quanto rara) qualità di stesura: i riflettori sono puntati su tematiche un po’ nostalgiche, di storie passate, amori non consumati. 

Il loro album d’esordio è “Archaeology of the future”, pubblicato il 6 Marzo 2012 sotto la PIAS per la regia di Craig Silvey (Arcade Fire, The Horros e Arctic Monkeys,): il risultato sono 13 brani dai suoni dolcissimi, pastellati, caldi e un po’ allucinogeni. L’uso di banjo e pedal steel guitar (conosciuta anche come ‘chitarra hawaiana’) trascinano tra percussioni che ricordano i Mumford and Sons, Naked and Famous o Caribou.
Con ‘Archaeology of the future  mille campanelle riempiono la stanza, mentre fanno eco suoni squillanti ritmati da battiti di mani, tamburi. Il distacco tra le strofe e il ritornello è impercettibile, tutto si sussegue liscio come un mojito nelle calde sere d’estate. Un’ottima partenza.
Pepita, queen of the animal’, ‘Teeo’, ‘In spain’ trascinano in un’atmosfera da festa sudamericana mentre ’The adventure of a diver’, più angosciata, cupa, fa emergere i toni malinconici che anticipano ’Me,desert’, inquietante traccia di 1:27 con Carmelo Bene in sottofondo, la quale da il giusto stacco inaspettato tra la prima e la seconda parte del cd, preparando a un’altra ondata di suoni positivi, morbidi, colorati. 
Con ‘Fleur le tue’ nasce un parallelo con i Phoenix, ’Notional towns’ alza la percentuale dei ritmi rockabilly, spezza il ritmo e sonda il terreno per ‘The colours are strange’, dove la voce ha il sopravvento sulla parte strumentale, entra in scena il tocco country e vengono sfiorate punte di synth pop.
Pond’ è un continuo cambiare rotta ritmica, ’Solau‘ adotta una veste più acustica, rievoca atmosfere da rito tribale: in un attimo siamo dall’altra parte dell’emisfero mentre assistiamo ad una cerimonia tossica per graziarsi il dio della pioggia. 
Archaeology of the future è un album che delizia orecchie, occhi e palato. 13 brani da mangiare in un boccone, famelici, insaziabili.


Bisogna fare di sé dei capolavori. Io ho trovato da molti anni, da molti millenni dentro di me il deserto". 
Carmelo Bene

mercoledì 27 giugno 2012


DRINK TO ME  

"No,
we're not,
we're doing the best we can
we're wide awake and we're working on the future days
we are the people that have no hopes
there's no nostalgia nor anticipation at all
we hate, we smile and we're beautiful
no revolution was ever made with love"



“Se cerchi qualcosa che ancora nessuno in Italia ha fatto in questo modo, ascolta "S" dei Drink to me! Siamo convinti che l'elettronica non sia qualcosa di freddo e pulito. Che una band rock non debba essere per forza "tosta" e spaccona. Abbiamo creato un suono che stimola il palato (un suono "da mangiare"), ritmi e melodie che creano dipendenza pari solo all'eroina”.
QUI, per leggere l'intervista su Rockit.


Definiti da Rolling Stone "Una delle migliori band italiane", giudizio largamente condiviso dalla critica, i Drink to me hanno tutte le carte in regola per poter essere confusi con band provenienti da background internazionali di musica sperimentale avanzata, senza limitazioni in tentativi all'avanguardia, senza pressioni per un adattamento commerciale.
(Pronuncia maccheronica dell'inglese a parte).

I Drink to Me sono Marco Bianchi, Carlo Casalegno, Francesco Serasso e Roberto Grosso Sategna. Arrivano dalle immediate vicinanze di Torino (Ivrea), e nonostante siano in scena dal lontano 2002, apparentemente hanno ancora marchiato in fronte la targhetta di 'emergenti'.

Nel loro scatolone delle cose già fatte hanno ben 4 EP autoprodotti, un 7'' e 3 album:

'Don't Panic, go organic' pubblicato nel 2008 da Midfinger Records, è stato registrato a Londra e mixato da Andy Sapori, che ha curato artisti come Blonde Redhead, Yeah Yeah Yeahs, The Killers, The Horrors; 

'Brazil', nel 2010, dopo essersi inseriti nella famiglia Records UNHIP, una delle principali etichette italiane indipendenti;

e infine quello che considerano il loro capolavoro, 'S', dal titolo criptico.


E' un album leggero ma cosciente, dagli arrangiamenti che scatenano immagini psichedeliche, positive, legate a testi di spessore trascendentale.

"...'S' è quella cosa che sta nello stomaco. E che connette il tuo stomaco a un luogo che sta a miliardi di anni luce da qui".


  Drink to me - S by drinktome




Il video ufficiale del primo singolo estratto da 'S', diretto da Luca Lumaca e pubblicato in anteprima su Wired.it
Dall'8 giugno è su youtube il video di Disaster Area.

martedì 26 giugno 2012

Ti piacciono i Black Keys ma che il batterista Patrick Carney assomigli così tanto a Pernazza degli Ex-Otago (il coniglio rapper del Chiambretti Night, per i più) ti confonde e ciò ti scazza?
Sei un fervido amatore dei successi cinematografici dagli scenari crudi, secchi, vincitori di Oscar, Grammy e Golden Globe (senza considerare gli altri)? 
(Vedi ‘Il Petroliere’)
Desideri l’unione delle due cose in un solo grande risultato tutto italiano, da buon sostenitore del made in Italy?
La soluzione esiste e ha il sapore amaro delle ballate un po’ sofferte, un po’ drogate. 
 Loro sono i There Will Be Blood (Davide Paccioretti, Mattia Castiglioni e Riccardo Giacomin), frutto italiano dell’eredità del noise rock americano, del blues, del garage.
Sono un trio di Varese (due chitarre e batteria) nato nel 2009 e che dal 2010 infiamma i palchi dei maggiori festival blues del nord Italia.
 Dopo il primo EP intitolato “Prologue”, che da’ l’avvio al percorso di un fantomatico “protagonista in ricerca della propria redenzione”, eccoli in un concept album completo tutto autoprodotto che accompagna il personaggio dell’Ep nel susseguirsi di sfortunati eventi: Wherever you go, there will be blood: ovunque andrai scorrerà del sangue.”
 La voce graffiata di Davide Paccioretti, a volte strascicata, altre sussurrata, ti ricorda che esiste una scena italiana che nulla ha di che invidiare ai maggiori nomi dell’hard rock mondiale. 
Questo, oltre a farti rizzare i peli dal fremito erotico che solo il violento gusto del rock un po’ country sa dare.
 Dalla strumentale ‘Coyote’, ottimo inizio per sondare il terreno, alla trascinante ‘Stomp or Fall’ con il suo giro di chitarra irruenta, i cori di battiti di mani e il ripetersi di ‘Everybody c’mon, clap your hands now’, che ti obbliga a seguirli in un delirio scalcitante, sino a ‘Black Rain’, che ti catapulta in scenari degni dei Kings of Leon.
 Riporta alla mente ricordi mai vissuti di spazi deserti infiniti, polverosi, aridi di vita ma generosi donatori di visioni e percezioni alterate. 
"And oh, mister heavenly
Where can a man go when he needs to sleep
For a hundred years
Before his heart feels restless?"


A discapito del nome i Mister Heavenly hanno ben poco di candido o celestiale: prendi un rock educato ma con la giusta dose di sporcizia, cattiveria e volgarità, aggiungici un ottimo compromesso pop e il risultato è a portata di casse.

Senza scordare che si tratta dell’unione dei crani di Ryan Kattner (Man Man),Joe Plummer (Modest Mouse) e Nick Thorburn (Islands / The Unicorns), che alla corte dell’etichetta Sub Pop Records (spodestata per fama da nomi come Emi o Warner Music, ma seconda a nessuno per artisti che promuove), si sono lanciati in un progetto tutto loro.

Hanno definito ‘Doom Wop’ l’incontro dei loro vari background musicali (dove ‘doom’ sta per ‘sorte, condanna’ e ‘wop’ è il termine americano denigratorio per riferirsi al cosiddetto ‘guappo’), un modo sardonico per intendere l’unione dei ritmi doo-wop dei Man Man col pop degli Islands e i ritmi incazzati deiModest Mouse.

La resa live è arricchita dalla presenza turnista dell’icona cinematografica -un po’ sfigata- Micheal Cera che, dopo averci abituati a personaggi come Paulie Bleeker (Juno), Scot Pilgrim (Scot Pilgrim vs the World) e Nick Twisp(Youth in revolt), rende complicato immaginarselo sul palco in veste di bassista/rocker/tombeur de femmes.

Senza farsi intimidire dalla recensione poco entusiasta di PitchforkOut of Love è un album da far scoppiare la testa a botte di repeat. E’ ciò che si va cercando se si vuole una nuova dipendenza musicale, se piacciono i brani efficaci senza essere pretenziosi, arricchiti a tratti da sonorità un po’ reggae, un po’ hawaiane con cenni di R’n’R anni ‘50, inaspettate seconde voci distorte che sopraggiungono, straniscono ma che alla fine convincono. Senza neanche troppa fatica.

Qui il link dell'album completo in stream su youtube

Tracklist:
01. Bronx Sniper
02. I Am a Hologram
03. Charlyne
04. Mister Heavenly
05. Harm You
06. Reggae Pie
07. Pineapple Girl
08. Diddy Eyes
09. Hold My Hand
10. Doom Wop
11. Your Girl
12. Wise Men

Chicca: i rozzi, fecali e scorretti skaters coinvolti nel video di Bronx Sniper sono i Man Wolfs, nonchè protagonisti di Machotaildrop, bizzarro film visionario sul mondo dello skate, diretto da Corey Adams e Alex Craig; questi, geniali interpreti della scena cinematografica indie, lo hanno realizzato dopo aver vinto il FUEL Tv Experiment con il cortometraggio "Harvey Spannos" ed essersi aggiudicati $1,000,000 per realizzare un lungometraggio.


domenica 24 giugno 2012

«Facciamo musica classica con roba distorta e scombinata».


Nome: Austra 
Provenienza: Toronto
Anno di formazione: 2009
Influenze: Bjork, PJ Harvey, Nine Inch Nails, Owen Pallett, The Knife, Nina Simone, NIN, Tori Amos, Fever Ray, Juan Atkins, Giorgio Moroder, Diamanda Galas, Hercules and Love Affair.


Dopo aver scoperto che il nome 'Private Life' era già utilizzato da un'altra band in circolazione, Katie Stelmanis, Maya Postepski e Dorian Wolf optano per il secondo nome della cantante stessa: gli 'Austra' (che, secondo la mitologia lettone, designava la Dea della luce) durante il tour condividono il palco con le gemelle Sari e Romy Lightman e Ryan Wonsiak.
Definiti diverse volte come "freddi", "controversi", "ambigui", alternano (volontariamente, o anche no) una presenza calda, a volte etnica dai toni stregoneschi, a un'identità musicale più distaccata qual è l'elettronica, un po' insofferente, un po' intollerante. Una realtà degna di confrontarsi con grandi nomi nordici (svedesi in particolare).

La caratteristica contrapposizione dell'impronta lirica della Stelmanis alle sonorità elettroniche, ha il sopravvento sui continui cambi di rotta ritmica dei brani: "Quando ero al liceo ero ossessionata dall'Opera. Ho amato le tragedie, il dramma che contengono. Nei miei anni del liceo ho trascorso un sacco di tempo ad ascoltare compositori del XX secolo, come Puccini e Debussy, che scrisse prevalentemente in chiave minore", come racconta in un'intervista a thequietus.com.

"Feel it break", album d'esordio del trio canadese, adegua alla perfezione gli influssi culturali e musicali più eccentrici. Sprigiona immagini pagane e mistificatorie, accompagna visuali tetre, cupe ma improvvisamente interrotte da una convincente armonia positiva e ottimistica.
Affezionati agli austeri quanto sognanti falsetti della Stelmanis, ogni brano vanta un creativo compromesso tra musicalità classiche, antiche, e ritmi incalzanti da dancefloor. 
Anche se a tratti un po' ripetitivo e annoiato, è un album che colpisce al primo ascolto, condannando a tatuarsi su ogni fibra cerebrale questo concatenarsi di ballate già sentite, ma senza essere banali.

Tracklist:


  • Darken Her Horse
  • Lose It 
  • The Future 
  • Beat And The Pulse 
  • Spellwork
  • The Choke
  • Hate Crime 
  • The Villain
  • Shoot The Water
  • The Noise
  • The Beast

  • 30 Maggio 2012 @ sPazio 211, Torino 
    "VOGLIO MORIRE".
    Questo, il mood con cui quel giorno mi sono diretta allo sPazio 211 per assistere al concerto degli Austra, in tutta la loro tecnica impeccabile e tonicità da palcoscenico.
    Il merito di un così contagioso entusiasmo lo si deve all'ironia della sorte (aka un paio di discutibili organizzatori d'eventi), che ha voluto la stessa sera, in locali diversi a Torino, i conterranei Austra e Grimes: per chi conosce quest'ultima, sa con quanta difficoltà i fanatici della musica 'indefinibile' ritmata da voci puerili, femminili, stridule il giusto, siano stati costretti a scegliere. 
    Per tutti gli altri, basti sapere che Grimes è solo l'appena 24enne faccia da cazzo più blasonata della musica degli ultimi tempi, definita da Tastemaker Magazine come un "alieno figlio dell'amore di Aphex Twin e ABBA".

    Tornando agli Austra, la definizione "cheap and chic" gli è dovuta, dove con "cheap" mi riferisco all'esiguo prezzo del biglietto rispetto ad uno spettacolo di tale portata; e non mi rifaccio esclusivamente all'intrattenimento musicale, ma anche alle incredibili capacità danzerine della Stelmanis e delle gemelle (Romy in particolare), un misto tra "il ballo della gallina nuda" ('Scrubs' docet), un tipico rito vodoo di qualche tribù indigena e le suadenti movenze del vigile urbano.

    Austra - Lose It @ sPazio211

    Il primo assaggio di caldo estivo non ha scoraggiato le numerose persone che, aspettando nella zona esterna del locale fino all'entrata in scena del gruppo, si sono poi ammassate intorno al palco, armate di birra.
    Come da routine ormai, ho raggiunto la mia semper fidelis postazione laterale: via la giacca, spazio allo smanicato e libero sfogo alle braccia che, così come la testa, non possono non seguire l'andamento lisergico e ondulante della voce per poi interrompersi, improvvisamente, e seguire quello ferreo e incalzante della base elettronica.

     "Freed from the beat and the pulse… playing for the heart and the soul"

    Che la cultura elettronica dell'Europa del Nord fosse una garanzia era già una certezza, ma dal grande Canada,  tra foglie d'acero, castori ed alci, si sta facendo largo qualcosa di estasiante e completamente nuovo.

    O quasi.